CRISI DA SOVRAINDEBITAMENTO.
AMMISSIBILITÀ ALLA PROCEDURA DI LIQUIDAZIONE IN ASSENZA DI PATRIMONIO O IN CASO DI PATRIMONIO INSUFFICIENTE ALLA COPERTURA DEI DEBITI.
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La questione che ha dato spunto alla presente riflessione nasce dalle sorti che hanno interessato un imprenditore e gestore di un bar-ristorante, il quale dopo aver investito ai tempi pre-crisi, ha cercato di resistere ai tempi della crisi fino alla chiusura dell’attività e conseguente procedura esecutiva sui beni acquistati per l’esercizio dell’impresa fino alla vendita.
Il problema generato dalle procedure esecutiva in genere, con il mercato immobiliare basso come ora, è il residuo debito che rimane in capo ai debitori per il fatto che i beni all’asta vengono venduti mediamente al 50 % del prezzo di perizia (di mercato).
La dinamica processuale, evidenziata molto sinteticamente, causa a molti imprenditori che hanno dovuto chiudere le loro attività, avendo visto vendere i propri beni aziendali e personali, il peso dei residui debiti che non potranno più essere rimborsati.
In questi termini pare, a chi scrive, che si inserisca il concetto di “sovraindebitamento” espresso dalla L. 3/2012, ai fini della proposta di una soluzione per quei debitori che non possono, né potranno, essere più adempienti nei confronti dei loro creditori.
Con le premesse qui anticipate coincide la questione sottoposta al Tribunale di Civitavecchia. L’istante, imprenditore e gestore di bar in forma societaria (S.a.s) deve chiudere e subisce un’esecuzione immobiliare sui beni di proprietà della società.
I debiti superano i 600.000,00 euro. Il valore di perizia dell’immobile supera i 200.000,00 euro, ma viene venduto a circa 60.000,00.
Per la forma societaria scelta, l’imprenditore, socio accomandatario, risponde di tutti i debiti della società, che residuano, all’esito della vendita all’asta, ad oltre 500.000,00 euro.
Oggi l’ex imprenditore svolge un lavoro dipendente ove genera un reddito di circa 10.000,00 euro l’anno.
È evidente che la situazione evidenziata possa essere qualificata come crisi di sovraindebitamento, che dovrebbe permettere al debitore di risolvere il problema con una delle tre procedure previste dalla L. di riferimento. Per esclusione, il soggetto non può accedere al piano del consumatore, in quanto non consumatore, poiché ha generato i suoi debiti nell’esercitazione dell’attività d’impresa. Non può proporre un accordo con i creditori, in quanto il suo reddito di € 10.000,00 annui non può certo far fronte ad oltre 500.000,00 di debito. Non rimane che ricorrere alla soluzione residuale della liquidazione del patrimonio.
Iscritta a ruolo la proposta di liquidazione, ove il debitore aveva evidenziato solo 2 autoveicoli usati e di scarso valore rimanenti nel suo patrimonio, il gestore asseverava la proposta di liquidazione, seppur evidenziando l’antieconomicità della procedura in considerazione della sostanziale assenza di patrimonio.
Il giudice chiamato ad esprimersi per la verifica dell’ammissibilità della proposta ex art. 14 ter L. 3/12, emetteva un decreto di improcedibilità sostenendo che: “..osservato che, pertanto la domanda di liquidazione è improcedibile per mancanza dei beni da liquidare, tenuto conto della misura dell’esposizione debitoria (€ 543.000,00) e del valore quasi nullo dei tre veicoli, dichiara improcedibile la domanda di liquidazione”.
Il provvedimento emesso dal Tribunale di Civitavecchia appare contrario allo spirito della legge, nonché infondato nel merito, poiché le motivazioni assunte sono estranee ai precetti normativi e frutto di una interpretazione creativa da parte del giudice.
Per giustificare la posizione di chi scrive, appare necessario evidenziare il significato del concetto di “sovraindebitamento” nella legge richiamata.
Al fine di meglio comprendere l’errore in cui è incorso il giudice nel ritenere improcedibile la proposta di liquidazione formulata, ricollegandola allo scarso valore dei beni liquidabili, è opportuno brevemente premettere quale sia la funzione della legge 3/12 ed i presupposti fondanti la stessa.
La ragione di tale disciplina si rinviene, oltre che come strumento di prevenzione del ricorso al mercato dell’usura, soprattutto, in tempi di forte crisi economica e finanziaria, nella necessità di attribuire allo stato di insolvenza (sovraindebitamento) del debitore non fallibile ovvero del consumatore, la possibilità di cancellazione dei debiti al fine di ripartire da zero (fresh start) e di riacquistare un ruolo attivo nell’economia, senza restare schiacciati dal carico dell’indebitamento preesistente.
Il legislatore, a tal fine, ha identificato il concetto di sovraindebitamento, elemento oggettivo necessario e sufficiente per adire la relativa procedura.
Ai sensi dell’art. 6, comma 2, lett. a), legge n. 3/2012 per sovraindebitamento si intende “la situazione di perdurante squilibrio tra le obbligazioni assunte e il patrimonio prontamente liquidabile per farvi fronte, che determina la rilevante difficoltà ad adempiere le proprie obbligazioni, ovvero la definitiva incapacità di adempierle regolarmente”.
Si osserva come il concetto di “stato di sovraindebitamento” appaia diverso da quello di “stato di insolvenza”, dal momento che il primo sottolinea una situazione di squilibrio finanziario attuale o prospettico tra attività correnti prontamente (dunque in un breve lasso di tempo) liquidabili e passività correnti da soddisfare (scadute o di imminente scadenza), che causa una difficoltà, anche temporanea, di adempiere regolarmente alle obbligazioni assunte (cd. insolvenza temporanea o reversibile) oppure la definitiva incapacità ad adempierle regolarmente (cd. insolvenza irreversibile), laddove il secondo indica, secondo il parametro interpretativo discendente dall’art. 5 l. f., l’incapacità di far fronte alle obbligazioni assunte sia già divenuta definitiva.
La prima parte della definizione di “sovraindebitamento” descrive, dunque, uno stato di illiquidità, in cui il debitore non è in grado di far fronte ai debiti scaduti o di imminente scadenza, nonostante che il patrimonio possa avere un valore superiore all’esposizione debitoria, ma non sia liquidabile in tempi brevi, né appaia possibile fare ricorso al credito di terzi, concedendo garanzie sul patrimonio non liquido.
Si evidenzia che lo squilibrio non deve essere temporaneo ma “perdurante” ed il raffronto dei debiti va fatto non con il patrimonio nella sua interezza ma con il “patrimonio prontamente liquidabile”, ovvero quella parte del patrimonio che può prontamente tradursi in liquidità tale da consentire l’adempimento con regolarità delle obbligazioni assunte.
Nel valutare il verificarsi del presupposto oggettivo delle procedure di sovraindebitamento il Giudice dovrà procedere all’accertamento della mera difficoltà ad adempiere e non, come nel caso dell’insolvenza, dell’impossibilità, anche futura, di soddisfare i creditori, per cui il legislatore ha previsto un accesso “a maglie larghe” alle procedure concorsuali di cui alla legge n. 3/2012, realizzando così lo spirito della legge.
Tuttavia la circostanza che il debitore all’atto della presentazione della domanda assuma e dimostri di essere sovraindebitato, preclude di ritenere necessaria una stretta valutazione dello “squilibrio perdurante” e del patrimonio “prontamente liquidabile”.
Infatti il richiamo del legislatore al concetto di “patrimonio prontamente liquidabile” induce a ritenere che il sovraindebitamento non si identifichi con la eccedenza della posizione debitoria rispetto alla consistenza patrimoniale, potendosi individuare anche nella ipotesi in cui, malgrado la maggiore consistenza del patrimonio rispetto all’ammontare complessivo dei debiti, si verifichi uno squilibrio che non consenta il regolare adempimento o escluda qualsiasi adempimento.
In effetti il sovraindebitamento non dipende necessariamente dal rapporto tra passività e attivo patrimoniale: un debitore che ha molti debiti, in proporzione alle sue sostanze, non è sovraindebitato finché riesce a procurarsi le risorse necessarie a far fronte ai debiti in scadenza; e viceversa il soggetto che possiede molti beni, ma non riesce a far fronte alle obbligazioni in scadenza perché non ha redditi sufficienti ed il patrimonio non è prontamente liquidabile, versa in stato di sovraindebitamento.
E’ pertanto evidente come l’elemento oggettivo idoneo a qualificare lo stato di sovraindebitamento, necessario ai fini della possibilità di usufruire della relativa disciplina, si identifichi nell’impossibilità a far fronte ai propri debiti, concetto del tutto distaccato ed autonomo rispetto alla presenza di beni mobili o immobili prontamente liquidabili e dal loro valore.
In sostanza il legislatore ha dettato una disciplina di favore per il debitore, atta a tutelarlo nel momento in cui lo stesso non sia in grado di far fronte ai propri debiti, in maniera più o meno irreversibile, e ciò malgrado lo stesso possa avere un ingente patrimonio, seppur non prontamente liquidabile.
Detta disciplina di favore non può ritenersi esclusa nel momento in cui il debitore, come nel caso in esame, a fronte di una dimostrata situazione di sovraindebitamento, unico elemento idoneo e necessario per usufruire della relativa disciplina, abbia messo a disposizione dei creditori i propri beni, come liquidabili, il cui valore, alla luce di quanto su esposto, non può essere identificato quale presupposto per ritenere ammissibile o meno la proposta formulata.
In conclusione, l’errore in cui è incorso il giudicante, nel caso riportato, si identifica nell’aver dato rilievo ad un elemento (scarso valore dei beni) il quale non ricopre una funzione necessaria e propedeutica all’accesso alla relativa procedura, essendone elemento estraneo ed in palese contraddizione con le finalità che il legislatore si è posto con la legge 3/12.
2. Come su evidenziato, a parere di chi scrive, il giudice ha ritenuto erroneamente improcedibile la proposta di liquidazione sull’assunto dell’irrisorio valore dei beni offerti a tal fine, unica consistenza patrimoniale dei ricorrenti, e tanto in evidente violazione dei principi e presupposti dettati dalla legge 3/12, art. 14 ter e ss.
L’articolo citato, infatti, identifica i requisiti di ammissibilità della proposta di liquidazione dei beni, specificandone il contenuto che la stessa deve avere (art. 3) e la documentazione necessaria che deve essere allegata alla domanda a pena di improcedibilità.
Ulteriormente, l’art. 14 quinques, espressamente prevede il limite di valutazione cui è tenuto il giudice in ordine all’ammissibilità della proposta, specificando che: “il giudice, se la domanda soddisfa i requisiti di cui all’art. 14 ter, verificata l’assenza di atti in frode ai creditori negli ultimi cinque anni, dichiara aperta la procedura di liquidazione”.
E’ evidente come nei citati articoli non vi è alcun riferimento alla necessità che i beni oggetto di liquidazione debbano preventivamente avere un valore tale da consentire il soddisfacimento, seppur parziale, dei creditori in ottemperanza all’ammontare dei loro crediti e diritti di prelazione, né preveda alcuna valutazione da parte del giudice sul punto, dovendosi lo stesso limitare ad accertare la sussistenza dei requisiti previsti dall’art. 14 ter della citata legge.
Ne consegue che la valutazione resa dal giudice non solo è ultronea rispetto ai limiti di accertamento cui lo stesso è tenuto, ma del tutto distaccata dai presupposti ed elementi che il legislatore ha identificato quali necessari e sufficienti ai fini dell’ammissibilità della proposta di liquidazione dai quali, come su evidenziato, esula qualsivoglia considerazione in ordine al rapporto tra passività ed attivo patrimoniale.
3. Diversa questione è la valutazione da parte del giudice, all’esito del procedimento di liquidazione, della meritevolezza per la concessione del beneficio della esdebitazione, che si propone come autonomo ed eventuale dalla procedura di liquidazione.
L’errore nel quale è incorso il giudicante, sempre a sommesso parere di chi scrive, nel dichiarare l’improcedibilità della proposta liquidazione, oltre a quanto su esposto in ordine ai requisiti previsti dall’art. 14 ter della legge 3/12 che escludono una valutazione aprioristica del valore dei beni offerti in liquidazione, è dato da un’errata interpretazione della norma in ordine al criterio del soddisfacimento dei creditori, il quale rileva non per l’ammissibilità e procedibilità della proposta, ma sotto il profilo del beneficio dell’esdebitazione, e cioè della possibilità, da parte del debitore, di liberarsi dai debiti residui nei confronti dei creditori non soddisfatti.
Per meglio chiarire, va premesso che l’art. 14 terdecies della legge n. 3 del 2012 regola la esdebitazione dei debitori e tra le varie condizioni, alla lett. f) richiede che “siano stati soddisfatti, almeno in parte, i creditori per titolo e causa anteriore al decreto di apertura della liquidazione”, riproducendo in forma positiva lo stesso requisito esposto in forma negativa nel secondo comma dell’art. 142 L.F., per il quale “L’esdebitazione non può essere concessa qualora non siano stati soddisfatti, neppure in parte, i creditori concorsuali”.
Questa disposizione, alquanto ambigua, ha creato fin dall’inizio una serie di dubbi interpretativi, risolti con intervento delle sezioni unite della Cassazione che, con la sentenza 18.11.2011, n. 24215, per analogia estendibile al caso in esame, hanno statuito che “L’art. 142, comma 2, l.fall. (e quindi anche la lett. f dell’art. 14terdecies della l. n. 3 del 2012) deve essere interpretato nel senso che, per la concessione del beneficio dell’esdebitazione, non è necessario che tutti i creditori concorsuali siano soddisfatti almeno parzialmente, bensì è sufficiente che almeno parte dei creditori sia stata soddisfatta; è rimesso al prudente apprezzamento del giudice accertare quando la consistenza dei riparti realizzati consenta di affermare che l’entità dei versamenti effettuati, valutati comparativamente rispetto a quanto complessivamente dovuto, costituisca quella parzialità dei pagamenti richiesta per il riconoscimento del beneficio”. Come si vede la Corte ha bocciato sì la tesi secondo cui per la concessione del beneficio dell’esdebitazione era necessario che tutti i creditori avessero ricevuto qualcosa, ma non ha dettato criteri precisi lasciando al giudice del caso di stabilire quando la consistenza dei riparti realizzati all’esito della liquidazione effettuata nel quadriennio, consenta di affermare che l’entità dei versamenti effettuati, valutati comparativamente rispetto a quanto complessivamente dovuto, costituisca quella parzialità dei pagamenti richiesta per la concessione del beneficio.
E’ pertanto evidente che detto principio trovi applicazione in ordine alla possibilità di beneficiare dell’effetto esdebitativo dettato e previsto dall’art. 14 tercedies e non ai fini dell’ammissibilità e procedibilità della proposta, i cui presupposti, come disciplinati dall’art. 14 ter e ss. non pongono detto elemento quale ostativo, né lo prevedono.
Ad ogni buon conto, seppur nel caso preso ad esame, sotto il profilo della meritevolezza della concessione del beneficio dell’esdebitazione, il criterio di valutazione del giudice avrebbe dovuto considerare l’intervenuta e parziale soddisfazione che il creditore ipotecario, unico privilegiato nel caso in esame, aveva già ottenuto in seno all’esecuzione immobiliare nella quale era stato venduto l’unico bene immobile stagito. Né, ai fini della concedibilità del beneficio dell’esdebitazione, rileva la possibilità che alcuni creditori possano non veder soddisfatto per nulla il proprio credito all’esito della vendita dei beni.
Ed invero la stessa Suprema Corte a sezioni unite, nella sentenza su citata, ha specificato che “In tema di esdebitazione, il beneficio della inesigibilità verso il fallito persona fisica dei debiti residui nei confronti dei creditori concorsuali non soddisfatti richiede, ai sensi dell’art. 142 comma 2 l. fall., che vi sia stato il soddisfacimento, almeno parziale, dei creditori concorsuali, dovendosi intendere realizzata tale condizione, in un’interpretazione costituzionalmente orientata e coerente con il “favor” per l’istituto già formulato dalla legge delegante (art. 1 comma 6 lett. a), n. 13, l. 14 maggio 2005 n. 80), anche quando taluni di essi non siano stati pagati affatto”
Da quanto esposto, per chi scrive, è di tutta evidenza l’errore nel quale è incorso il giudicante, sia nel momento in cui ha considerato improcedibile ed inammissibile la presentata proposta di liquidazione alla luce di un criterio (valore dei beni), in palese contraddizione con i principi dettati dalla norma all’art. 14 ter legge 3/12 e con evidente superamento dei limiti valutativi ad esso riconosciuti dall’art. 14 quinques, nonché nel momento in cui detta valutazione, pur ritenendola applicabile esclusivamente alla concessione del beneficio dell’esdebitazione di cui all’art. 14 terdecies, non ha considerato l’intervenuta parziale soddisfazione dei creditori, come ottenuta in sede di esecuzione immobiliare.
Dichiarare improcedibile una proposta di liquidazione con le motivazioni dedotte dal Tribunale, allo stato, vale a negare l’efficacia e l’applicabilità della norma.
Tarquinia, 6 settembre 2017.

Avv. Norberto Ventolini

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